Easy Rider e gli anni ’60, come Hollywood imparò a raccontare il Vietnam

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Un matrimonio che s’ha da farsi! Cosi, da un eco manzoniano possiamo sintetizzare il rapporto intercorso tra il cinema Hollywoodiano e la guerra del Vietnam. Due splendidi amanti pronti a corteggiarsi l’un l’altro. Ma come tutti gli amori l’inizio non è stato facile.
Innanzitutto cos’è e soprattutto come nasce il Vietnam movie? Partiamo affermando di fatto che ogni genere è caratterizzato da alcune convenzioni date dal setting, dagli eventi, dai valori che definiscono i vari generi limitando ciò che è possibile all’interno di una storia: lo spettatore, infatti, si avvicina a un film conoscendo già queste convenzioni di genere, in poche parole si è coscienti di ciò che si va a vedere.

Si può quindi affermare che nello spettatore si creano delle attese circa un genere; tuttavia, a volte, si possono riscontrare discordanze tra le intenzioni del regista e le aspettative del destinatario. Il Vietnam movie si inserisce in un contesto molto complesso che è quello del cinema bellico americano e non. Questi può essere convenzionalmente e ulteriormente suddiviso in due categorie cinematografiche: da un lato troviamo i film realisti, che rappresentano la quasi totalità delle pellicole; dall’altro c’è un gruppo di film anti-realisti, che si riduce a soli tre titoli; Full Metal Jacket, Apocalypse Now, Il cacciatore, i quali tentano nuove vie per rappresentare il tema della guerra. Il Vietnam diventa un perfetto background per azioni violente e spettacolari, esplosioni e bombardamenti, ma anche per storie tristi, emozionali o addirittura parodistiche. La mentalità gretta e a volte stantia delle grandi major americane ha impedito che si parlasse liberamente dell’argomento “guerra”, le stesse molte volte frenate anche da un atteggiamento dell’opinione pubblica tagliente come un rasoio. Fu un eco spesso debole, ma a volte così potente da scuotere poltrone e addirittura spezzare l’allora status quo cinematografico, fino ad arrivare ad una rottura epica con l’apocalisse di Coppola e Il cacciatore di Cimino. Fine di un era inizio di un’altra. Rinnovamento, cambiamento, protesta e capolavori assoluti. Coppola e Cimino rappresentano lo spartiacque storico della Hollywood “Sesso, droga e rock’n’roll ” come la chiamerebbe Peter Biskind. Il film sulla guerra contro i Charlie ha radici ben più profonde che andremo ad analizzare a partire dalla propaganda filo repubblicana fino ad arrivare alle lunghe riflessioni kubrickiane.

Gli anni ’60 e l’immediato dopoguerra

Il movimento dei diritti civili, le rivolte razziali: il “black power”. La controcultura, gli hippy, le droghe: il “potere dei figli dei fiori”. I giovani, la musica e la moda pop. Le proteste universitarie e la “nuova sinistra”. Una nuova ondata di femminismo e le richieste di riconoscimento dei diritti degli omosessuali. Speranze politiche, sogni e incubi. Kennedy, l’assassinio di Kennedy. Un altro Kennedy: un altro assassinio. Martin Luther King: assassinio. La guerra che imperversa, gli scontri sulle strade di Chicago . Dall’inferno con furore, sembrerebbe la trama di perfetto action thriller, in realtà era la situazione sociale che abbracciava gli Stati Uniti tra gli anni 60 e 70 del XX secolo. Questa situazione di tensione si ripercosse, direi inevitabilmente, sul cinema americano di quegli anni. Una rottura, una controtendenza si andava man mano sviluppando ad Hollywood già con il capolavoro della new generation Easy Riders.

Un film che intende rendere conto dello stato di degradazione di un’America che ha perso i valori fondativi e si trova ormai in una situazione di stallo in cui la corruzione, lo smarrimento dell’identità, la violenza e la fine di un sogno di miglioramento sono caratteristiche fondamentali della metafora rappresentata nel film. Il titolo stesso della pellicola, nonostante i ripetuti tentativi di infelice traduzione e comprensione, non è altro che un’espressione gergale del Sud che fa riferimento al compagno di una prostituta, l’America, appunto e alla possibilità di usufruire di una “corsa facile” senza pagare il dovuto.

All’interno di questa consapevolezza di putrefazione crescente nasce un film culto diventato una leggenda anche per il suo impatto sulla storia del cinema americano, perché il lavoro di Hopper rappresentò un mirabile esempio di pellicola costata pochissimo, circa 340.000 dollari, capace invece di incassare una cifra impensabile per l’epoca, più di 60 milioni di dollari, contribuendo ad inaugurare quella che gli storici del cinema hanno chiamato, non senza enfasi, la Nuova Hollywood, tentativo di rinnovare la classicità del cinema americano utilizzando registi giovani come Altman, Coppola, Scorsese, De Palma e Spielberg che si affacciarono proprio durante questo periodo, senza ricorrere all’integrazione produttiva verticale atta a controllare produzione, distribuzione ed esercizio .

Ma Easy Rider diventò leggenda anche per la sua capacità di attrarre una generazione verso una pellicola ritenuta capostipite dei cosiddetti Youth Movies, film giovani destinati ai giovani, in cui le nuove generazioni potessero rivedere se stesse, le proprie ambizioni spesso frustrate e il ritratto fedele che ne scaturiva. In questo contesto si inserirono diversi registi attratti dall’argomento “guerra del Vietnam”, uno di questi, se non addirittura l’apripista di questo filone cinematografico fu Pierre Schoendoerffer con il suo film 317° Battaglione d’assalto del 1965. Ambientato nell’Aprile 1954 nel Laos del Nord. Dien Bien Phu sta per cadere, la guerra d’Indocina è alla fine. La 317ème Section (plotone), formata da quattro francesi e quarantun laotiani, riceve l’ordine di ripiegare a Tao-Tsai, a 150 km di distanza. Otto giorni dopo sono vivi soltanto tre laotiani e l’aiutante-capo Willsdorf (Cremer). Tratto da un romanzo dello stesso regista che alla guerra d’Indocina partecipò come cineoperatore, rappresenta l’insolito e il diverso in cui la guerra non è spettacolo, ma cronaca onesta, autentica, calata in uno spoglio bianconero di Raoul Coutard senz’ombra di calligrafia, di coerenza ammirevole nel rifiuto di ogni stereotipo eroico. Non denuncia né esalta: racconta. Non impone, ne propone. Quasi tutti non professionisti il film risulta gradevole, più che bravi gli interpreti, anche Perrin e il quasi inedito Crémer. Ma il battaglione di assalto di Schoendoerffer non fu che l’apripista di un genere fin troppo ricco e svariato.

Ma il primo film degno di nota fu Berretti verdi di John Wayne. Particolarmente controverso per via delle note simpatie repubblicane dell’attore, il film si trovò contro una burrascosa critica e addirittura quasi attentati alla pubblica visione. Tratto anche esso da un romanzo (Robin Moore), narra le vicende di un duro addestramento di due reparti delle American Special Forces che partirono per il Vietnam per combattere eroicamente la loro crociata contro i musi gialli comunisti. Il film rappresenta un giustificazionismo sciovinista quasi pervertito di destra reazionaria che Hollywood osò fare sul Vietnam: Dio è con John Wayne a stelle e strisce. La battuta principe di questo teorema è racchiusa nella prepotente bugia dell’attore repubblicano all’orfano vietnamita “Figliolo, è per te che facciamo questa guerra” .

Ci si trova di fronte ad una piatta riproposizione delle convenzioni e degli stereotipi più abusati del genere bellico, senza che né la regia né la sceneggiatura riescano a scalfire in un qualche modo l’assoluta mancanza di originalità della pellicola. Di natura diversa rispetto a Wayne, è il film di Stuart Hagman Fragole e sangue uscito nel 1970. Questo non narra le vicende direttamente belliche ma rappresenta una “contaminatio generis” tipica di quegli anni. Una storia d’amore spinge un giovane scettico e apolitico a impegnarsi attivamente nelle lotte studentesche alla Columbia University per protestare contro la “dirty war”. Tratto da un romanzo di James Simon Kunen e sceneggiato da Israel Horowitz, che interpreta la parte del dottor Benton, è un film M-G-M sulla rivolta studentesca che ha il torto di voler giocare su troppi tavoli: commedia, dramma sociale, musical . Uno dei rari esemplari cinematografici sessantottini prodotti da una major di Hollywood sull’onda del successo di Easy Rider. Prodotto senza dubbio addomesticato, ma la violenta carica poliziesca contro gli studenti che intonano “Give Peace a Chance” (Joan Baez) conserva ancora il suo fascino retrò. Altro film molto particolare per il genere adattato alla guerra è senza dubbio Un mucchio di bastardi di Jack Starrett. L’unico Bike movie (film di moto) adattato alla guerra del Vietnam. Narra le vicende di cinque ex combattenti, convertiti all’ideologia degli hippy, richiamati alle armi e mandati a combattere contro i Vietcong. Trasformate le loro moto in mezzi d’assalto, liberano un compatriota della CIA .

Come altri film del periodo di propaganda mostra una violenza gratuita contrabbandata come patriottismo e amor della patria. Di tutt’altra pasta è Taxi Driver di Martin Scorsese che narra le vicende di Travis Bickle, veterano del Vietnam in congedo, sofferente d’insonnia e deciso ad impegnare le proprie notti facendo il tassista. Completamente disadattato ma idealista alla ricerca di uno scopo, l’uomo si invaghirà di una ragazza e le chiederà di uscire. Quando le cose tra i due andranno storte, Travis, definitivamente disilluso riguardo la società, si chiuderà in se stesso. Comincerà così per il tassista una claustrofobica discesa nel baratro della solitudine, in bilico sui margini della sanità mentale . Scorsese accompagna lucide ricostruzioni contestuali a ritmi ipnotici, dando vita ad alchimie capaci di avvolgere lo spettatore. Il senso di vuoto, di distanza, che permea la vita del protagonista è trasmesso con efficacia da ambienti e situazioni presentate; ogni inquadratura è coerente, a creare un tutt’uno coeso, uniforme nel dare spessore vivo alle atmosfere.

La solitudine è ovunque nella jungla urbana, ma per Travis diventerà una vera e propria vocazione, elemento scatenante di un disturbo mentale latente; lo straniamento del protagonista arriverà ad essere totale e lo stato di primordiale libertà, così acquisito, libererà le pulsioni represse in una esplosione di violenza. Il genio è nel paradosso: dopo tortuose deviazioni, i binari della psiche porteranno ad esiti anomali ma riconducibili ad un estremo ideale di giustizia, impossibile da raggiungere per qualsiasi individuo “normale”. Le confuse luci di New York filtrate da un parabrezza bagnato, fumose atmosfere dai sapori jazz: su inquietanti interrogativi, apertura e chiusura si ricongiungono, a serrare il cerchio tracciato da Scorsese. Un suggestivo spaccato della debole psiche post bellica di uomini cambiati dagli orrori della guerra e mai del tutto tornati dal conflitto. Un mercoledì da leoni del 1978 di John Milius rappresenta invece una perfetta narrazione diaristica sul disagio della società americana degli anni 70. Nell’estate del ’62 Jack, Matt e Leroy sono giovani, spensierati e assolutamente pazzi per il surf . La loro vita trascorre prevalentemente sulla spiaggia in attesa della “grande onda” grazie a cui dimostrare il proprio valore. Poi arriva il Vietnam. Jack passa tre anni nell’inferno della guerra. Gli altri due riescono a evitare il fronte. Nella primavera del 1974, in occasione di una violenta mareggiata, i tre si ritrovano di nuovo sulla spiaggia. La vita li ha cambiati e la loro amicizia è ormai esaurita. Ma tutti ancora innamorati delle tavole da surf aspettano, forse per l’ultima volta, la grande onda che è in arrivo.
Il ritratto corale, dinamico, allegorico di una generazione, l’amara realtà della vita entra a poco a poco, ma in maniera decisa ed invasiva, come una successione di ondate di marea: la tracimante, incontenibile energia dei loro vent’anni viene progressivamente spianata, come la sabbia, dalla risacca dell’età adulta. La loro adolescenziale passione per il surf estremo esprime una gioiosa voglia di dominare il mondo, di andare incontro al pericolo per cavalcarlo con forza, intelligenza e agilità .

Tuttavia, ben presto, gli ostacoli dell’esistenza si riveleranno, per loro, ben più duri ed indomabili di una superficie d’acqua increspata. Quest’opera non è un film d’impegno, non discute i problemi del vivere, né gli errori della storia; però ne fa rimbalzare l’eco dentro i cuori dei protagonisti, rendendo udibile, attraverso il fragore della mareggiata, il tonfo con cui l’anima inghiotte il dolore. Le riprese, spettacolari, vertiginose e vividissime, dei virtuosismi atletici tra i cavalloni, sono un invito a trattenere il fiato, a reprimere l’inutile impulso che spingerebbe a gridare contro l’irreparabile: la perdita dell’innocenza, la fine delle illusioni, la morte degli amici. La flessuosa elasticità con cui i corpi dei ragazzi, in piedi sulla tavola, assecondano il tumultuoso movimento dell’oceano, è un filosofico inno alla potente docilità e alla remissiva resistenza con cui occorre affrontare le avversità, che ci vincono solo se ci trovano completamente rigidi, oppure, al contrario, totalmente abbandonati .

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